Perdere sul ring, vincere sui social
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Leggo i resoconti dei vari match la mattina che si dividono equamente (per statistica) in sconfitte e vittorie e mi domando quanto i social network abbiano cambiato la gestione psicologica della sconfitta.
A mio avviso moltissimo.
Per iniziare, una volta c’era meno diffusione degli sport da combattimento e chi arrivava a comparire nelle pagine dei giornali era già un campione. Nessuno (o poco) spazio per i dilettanti ed i professionisti di primo pelo.
I più visibili quindi erano solo i professionisti famosi: chi vinceva era il dio assoluto e chi perdeva doveva fare i conti con solo sé stesso e la eco dei titoli che lo davano per “sconfitto“, “finito“, “da buttare”. Una pressione psicologica non da poco.
Oggi, volente o nolente, non è più così: esistono i social dove tutti, sia chi ha un curriculum sportivo enciclopedico sia chi ha tirato il primo calcio ieri l’altro, hanno la loro bella vetrina sul mondo ed il numero di follower che li segue fa di loro dei “campioni” (virgolette d’obbligo).
Effettivamente il numero di follower è un parametro di quanto interesse si riesce a generare ed è un numero che interessa moltissimo gli organizzatori di eventi: un bravissimo fighter che combatte in un palazzetto vuoto non dà da mangiare a nessuno.
Di contro, un brocco inguardabile con un grande seguito può paradossalmente “dar da mangiare” a molte persone: e questa cosa si rileva non solo nel mondo dei fighter ma in qualsiasi altro ambito dove si vendano immagine ed eventi. Le cifre esorbitanti date ai calciatori non sono certo funzioni delle loro capacità di dribblare o fare goal.
Ma non è tanto sul seguito e relativi introiti che voglio puntare il riflettore stavolta, quanto sull’aspetto psicologico della sconfitta.
Oggi, giustamente, i maestri o gli stessi atleti scrivono ogni giorno il resoconto dei match del weekend sui social ed ogni singolo nome viene alla ribalta, correlato di immagini e video dell’incontro, anche se è un classe N di un paesello di provincia di mille anime.
E questo è bellissimo, giustissimo e doveroso, senza retorica alcuna. Ieri sera ero incollato allo schermo per sapere come fosse andato il match di un grandissimo fighter che seguo e stimo tantissimo, Davide Armanini. E non vedevo l’ora di leggere una sintesi dell’incontro, sua o del suo maestro.
Com’è normale che sia ogni cambiamento tecnologico consistente provoca un terremoto sociale e psicologico che va compreso ed analizzato.
Nel caso dei fighter penso ci siano numerose declinazioni possibili di questo effetto, a seconda del contesto, dell’evento e delle reazioni pubbliche.
C’è la situazione dove la sconfitta viene vista come dura ma giusta e la situazione dove si accusano gli arbitri; c’è la situazione dove si presenta il risultato secco e senza commenti e la situazione dove si accendono discussioni infinite sull’incontro e su chi avrebbe dovuto fare cosa (Petrosyan – Petchmorakot o Mayweather – Pacquiao ne sono un esempio).
Comunque sia, alla fine di solito un perdente c’è sempre ed al netto delle discussioni è lui che sotto la doccia, finito l’incontro, è solo con sé stesso e deve fare i conti con l’accaduto.
Ecco, qui vedo la differenza con un fighter pre epoca web. All’epoca non c’erano migliaia di persone che la sera stessa ti facevano arrivare il loro supporto: ti facevi la doccia, andavi a casa e ti leccavi le ferite. Se la botta non era troppo grossa e se il tuo orgoglio te lo imponeva, quanto prima eri di nuovo al sacco.
Oggi già nello spogliatoio sei inondato di notifiche e messaggi: “per me era vinto, fraté!”, “comunque sei il nostro campione!” e magari anche il commento di qualche fighter che stimi che ti dice “hai comunque fatto un buon incontro”. L’umore ne risente, le capacità di recupero anche, la fossa è lontana.
C’è chi dice che questo sia pericoloso e porti alla desensibilizzazione: mi è capitato in effetti di vedere ragazzi che scendevano, avendo perso, e sembrava che non gliene fregasse niente. Un’ora dopo essere usciti dallo spogliatoio erano al bar che bevevano una birra, magari con l’avversario.
Per me non è un male in valore assoluto: è segno della mutazione dei tempi (Baricco sosterrebbe che stiano mettendo le branchie: sono d’accordo). Non credo che a questi ragazzi “bruci” meno di quanto avesse potuto bruciare senza il network di amici, virtuale o reale che fosse. Penso piuttosto che sia nato un nuovo modo di “stare vicini” alle persone ed un nuovo peso che si dà all’incontro: oggi, scesi dal ring, ci sono discussioni, analisi, prospettive una volta impensabili se non per profondità almeno per quantità. Non hai fisicamente il tempo di star male che devi subito rispondere alle interviste (i più famosi), rilasciare commenti, aggiornare il tuo status, parlare con i promoter e magari stringere contatti con atleti locali. Poi, solo dopo, ti fai la doccia, torni a casa e ripensi a quel low kick che potevi parare. Una volta c’era solo il pulsare della gamba a ricordarti che non avevi tu la coppa in mano.
Chiaramente bisogna bilanciare: un conto è dare spazio a tutti ed un conto è incensare i brocchi. Un conto è fare l’influencer ed un conto è fare il fighter. Un conto è sentirsi circondato dell’affetto dei sostenitori ed un conto è giustificare una sconfitta o accusare gli avversari o l’arbitraggio per nascondere i propri errori.
Però abbiamo anche avuto nel tempo dei validi atleti che hanno abbandonato la disciplina da combattimento perché privi di un supporto adeguato, vittime di insegnanti abusivi e scriteriati e magari anche di un sostegno familiare ai propri sforzi.
Al netto di questi distinguo, se i social sono usati con criterio a mio avviso possono solo che far bene all’atleta che perde ed al mondo sportivo che lo circonda.
Ma mi raccomando, da fighter (amatore), da supporter dei miei amici agonisti e da informatico, di rispettare la netiquette! 😉
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