La perfezione inefficace
Perché la tecnica non è tutto, in un match
Come fighter amatoriale mi sono trovato davanti poche sfide (quasi nessuna direi, esclusi i miei obiettivi personali) rispetto ai miei compagni di allenamento professionisti: non ho nessun match all’attivo quindi non ho mai provato la pressione alla quale sono sottoposti, sia psicologica che fisica.
Non ho mai dovuto fare un taglio del peso, non ho mai passato una notte insonne pensando all’avversario ed al match di domani, non ho mai provato la rabbia di una tecnica fatta mille volte ma che non “entrava” durante l’incontro. Non ho, sicuramente, mai investito la quantità di tempo ed energia che hanno messo loro sul piatto, per giocarsene poi il valore nell’arco di un quarto d’ora.
Tuttavia sono stato a contatto con fighter professionisti ed agonisti abbastanza a lungo per farmi un’idea di cosa vivano ed ho una serie di esperienze extrasportive (dalla mia professione attuale, sviluppatore software, ad un lungo periodo precedente come docente e titolare di una scuola di musica).
Queste esperienze mi hanno fatto evidenziare una caratteristica comune a molti che descrivo come “perfezione inefficace“.
Ho incontrato nella mia vita tante persone che cercavano, nella loro arte, nel loro sport o nella loro professione, una perfezione maniacale, una ricerca del dettaglio nel gesto, nell’esecuzione, al limite del robotico.
Ho notato una cosa interessante in tanti anni di osservazione: la loro tanto agognata perfezione non è direttamente collegata con i loro successi mentre, al contrario, spesso porta ad insuccessi e frustrazioni.
Chiaramente bisogna fare degli enormi distinguo: la perfezione del gesto nella fase di preparazione atletica è fondamentale per evitare problemi fisici, questo è indubbio.
Non si può semplicemente prendere un bilanciere, riempirlo di pesi e sollevarlo sopra la testa per dire “sono forte“. È solo un biglietto (costoso) per lo studio di un fisioterapista (se va bene).
Così come è fondamentale imparare le basi delle tecniche e ripeterle finché non diventi il famoso “uomo che ha tirato mille volte un calcio” di Bruce Lee (o Jim Morrison, per quel che possa essere veritiera la citazione, lol).
Forma e sostanza devono essere in equilibrio e la ricerca della perfezione non deve bloccare quello che realmente conta: l’efficacia.
Jazz e sport da combattimento condividono un elemento importante: l’improvvisazione.
A differenza dei Kata o dei Poomsae, dove la sfida è contro te stesso per cercare la perfezione formale (simile a quanto accade in un brano solista di musica classica) in un match si applicano sequenze studiate allo sfinimento in palestra adattandosi al combattimento dell’avversario.
Ad un jab rispondi con una schivata, studiata mille volte, ed un contrattacco; oppure incassi il low kick e rimetti un middle, sempre come hai fatto in palestra centomila volte.
Lo stesso fa un jazzista: studia quale scala suoni “bene” su quell’accordo, studia fraseggi, armonia, metrica e tutto quanto ma NON SA cosa succederà esattamente sul palco. Improvviserà di conseguenza lì sul momento. Chiaramente più ha studiato e meglio suonerà, così come più è allenato il fighter e meglio combatterà. Tuttavia questo non basta.

Non basta studiare mille ore di scale, accordi, ascoltare musica e spellarsi le mani sullo strumento: ed alla stessa maniera non funziona passare ore in palestra a fare miliardi di volte lo stesso colpo, la stessa sequenza ed imparare a tagliare gli angoli meglio di un ninja.
O meglio: è molto importante e chi lo fa merita tutta la stima del mondo ma bisogna rendersi conto che non c’è solo quello. INCHIODARSI sulla ricerca della perfezione formale può portare a dei blocchi mentali pericolosissimi ed alla perdita di efficacia (AKA: sconfitta).
Il fighter che, come si dice, “sta lì e scambia“, con una tecnica perfetta, teme tantissimo il classico “avversario che gli sporca l’incontro“, sbracciando e tirando colpi scomposti (quindi imprevedibili secondo gli schemi che lui ha studiato ed applica in maniera meccanica), magari forti e da KO.
Ho visto abbastanza match da notare questo effetto (che ho provato, da musicista, sul palco) su tanti ragazzi dotati di una tecnica sopraffina. Vedendoli fare shadow boxing sembra di vederli fare una forma, solo un po’ più sciolta. Sono favolosi. Poi però sul ring la loro efficacia viene meno.
Perché? Perché non capiscono che il match è fatto di molteplici fattori da moltiplicare tra loro, non solo di tecnica.
E sono tantissimi: dalla forma fisica, a quella psicologica, alla preparazione ATLETICA, al livello dell’avversario e via dicendo.
Ognuno di questi fa la differenza. Senza CONVINZIONE non si vince un match: d’altra parte con tanta convinzione e poca tecnica non si arriva lontani. Roy Nelson è molto convinto. Ma Daniel Cormier ha convinzione e tecnica da vendere e gliel’ha spiegato bene in UFC 166.
La storia ci ha consegnato alcuni esempi, modelli di riferimento, di campioni che avevano tecniche incredibili ma non si formalizzavano sull’esecuzione schematica e se dovevano tirare un colpo “sporco ma efficace” per vincere lo facevano senza problemi.
Muhammad Ali, Saenchai, Lomachenko, Samart Payakaroon, Andy Hug, Canelo, Rose Namajunas: sono tutti atleti che nella storia hanno studiato il colpo perfetto ed hanno dato sfoggio di tecnica sul ring, tatami o sulla gabbia ma hanno ottenuto i loro successi con il colpo più efficace.
Qualcuno di loro (Lomachenko, Saenchai) ha raggiunto livelli di perfezione tecnica al limite dell’umanamente concepibile: altri (Ali, “Thrilla in Manila”) hanno vinto molte volte con la loro caparbietà più che con la loro tecnica.
Come ero solito dire ai miei allievi, il brano che vi fa esplodere il cuore e che ascoltate allo sfinimento (senza mai stancarvi) è fatto di molto più che una serie di note in fila suonate perfettamente.
Oltre alle note, c’è la musica.
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Commenti
da "Never ending story") e spesso quella spavalderia mostrata con tecnica ed eleganza in palestra si scontra con la durezza di un destro in faccia (cit. Tyson "Everybody has a plan until they get punched in the face").